Il Giro che non finisce mai
di Gian Paolo Porreca
Partiamo, a Giro ancora in corso, da un punto fermo. Finché c’è Giro c’è innanzitutto speranza, per noi che non abbiamo mai avuto la giusta età, per vivere al meglio le cose della vita. Già adulti, pensiamo, in una parafrasi musicale al Festival della Canzone Europea che tanto indecente clamore mediatico in questi giorni ha suscitato, al tempo della vittoria di Gigliola Cinquetti, e troppo vecchi oggi al tempo del successo dei Maneskin.
Finché c’è Giro, lo scriviamo senza pacata bonomìa, ma con la consapevolezza tangibile che altrove c’è solo il peggio, solo l’inabitabile, finché c’è il Giro d’Italia, c’è tuttavia speranza.
Senza il Giro 2021, non avremmo avuto l’emozione di Taco Van der Hoorn e la commozione di Lorenzo Fortunato, e vi pare poco, parlo per me, al netto di Egan Bernal e Damiano Caruso ?
Certo, stiamo qui fedeli ai piedi del Giro, e non del suo podio, perché siamo cresciuti, e continuiamo dunque ad avere quella età sbagliata, con il batticuore bambino del Bondone del 1956 e le lacrime calde per Pasquale Fornara che perdeva e Charly Gaul che vinceva. Certo, senza la tempesta di neve sul Rolle e Vincenzo Meco che trionfa, la tappa fermata lì nel ’62, e Armand Desmet detronizzato, non saremmo forse rimasti consegnati in quell’insularità di sentimento, di rose non colte, se non di amori smarriti.
Ma tant’è, anche un Giro dalle vette alpine ridotte per strada, nella priorità di una prudenza che sia saggia o sia eccessiva, ci sta bene, non ne snatura il senso, non ci mortifica: ci lascia intatti il Gavia di Massignan 1960, così come non fa scolorire il Bormio di Breukink del 1988.
Un Giro che evita le intemperie, un Giro al riparo relativo dal freddo, pure resta svettante nel suo rimaneggiamento, pure resterà primo del 2021, il Giro di quest’anno che passerà e finirà a Milano. Grazie perché ripasserai, tu che non hai dubbio, ad onorare il nostro mondo in esilio.
Diversamente, ci ha inquietato, e forse questo può essere un problema di regole da valutare, il comportamento di quei velocisti che il Giro lo hanno iniziato per staccare il loro ticket sindacale, e poi via di qua, per altre pianure, appena il percorso si inarca.
Che Tim Merlier, vinta una tappa da noi si ritiri e vada a prendersi un paio di giorni dopo il Giro del Limburgo, ci lascia perplessi. Più ancora del congedo di Caleb Ewan e di Giacomo Nizzolo, per essere unanimi. E ci viene in mente, da un’altra stagione, e dal Tour per non fermarci al nostro Giro, lo sdegno di Bruno Raschi per il comportamento di Urs Freuler, nel Tour de France del 1981. Già, quel pistard svizzero schierato nella TI-Raleigh olandese che dopo la vittoria in volata a Bordeaux e un secondo posto a Bruxelles qualche giorno dopo, li salutò tutti, in accordo sia ben chiaro con il team manager Peter Post. “Avevo firmato un contratto per tredici tappe...”, o giù di lì, si giustificò Freuler, senza addurre almeno malattie e paturnie strane. “Che gli si eviti almeno di gareggiare altrove, durante lo svolgimento di quel Tour da lui lasciato senza plausibile motivo”, chiedeva all’UCI sulla Gazzetta il grande onesto Raschi.
Ecco, al Giro del 2022 ci auguriamo vivamente, al di là di un maggio più intenso di sole, l’assenza di questa deplorevole categoria di partenti part-time. Un Giro per sempre, senza che al via sia iscritto l’abbandono con dolo.