Lettera a Matteo B.
di Gian Paolo Porreca
mi ha molto colpito la tua storia, di promettente ciclista in fiore che lascia il suo sport del cuore per scegliere, con determinazione, il percorso della laurea in Medicina.
E sembra ieri, ed è stato credimi una vita fa, anzi due, quando i grandi mi chiedevano nelle estati di campagna “ma, Paolo, tu cosa vuoi fare da grande?”, ed io, bambino che i giorni del sole li trascorreva perdutamente su una biciclettina rossa, rispondevo “certamente farò il ciclista”. Ed aggiungevo, per vero, e i vecchi sull’aia mi sorridevano, “infatti presto non mi chiamerete mica più Paolo, ma Pasqualino, come Fornara, il mio corridore preferito”.
Ma sapessi quanti autunni di troppo seguono le estati negli anni, e quanti sogni dismessi, e così la mia passione infinita per il ciclismo è finita, non so se bene o male, più sulle pagine che ho scritto, e che forse leggerai anche tu da quest’oggi, che non sui chilometri di strada percorsi.
Tu ti congedi dopo una esperienza di rango fra i “puri”, che bel nome, il Giro d’Italia under 23, il Giro della Valle d’Aosta... Io al massimo, diventato presto medico e chirurgo, in bici da corsa di fatto ricordo solo romantici Cicloquartieri a Napoli, in età da amatori, con uno sprint finale platonico, davanti al Parco della Floridiana, a mani alzate, semmai per farmi applaudire da mia figlia Benedetta piccolina...
Non pensare affatto però che la tua scelta, designata dai rigori miliari della vita, sia una contraddizione in termini, o un cedimento, giammai, caro Matteo.
Vedi, io ho fatto e continuo a farlo, il Medico, perché poi medici lo si resta a vita, come se facessi tuttavia il Ciclista. Siamo uguali dentro, non siamo giureconsulti, abbiamo uno stesso DNA etico, di dedizione e devozione, di gratuità, il camice bianco come la maglietta della squadra, e il mio turno di guardia insonne in Rianimazione io lo ho vissuto lancinante come fosse una fuga alla Parigi - Roubaix, fino al traguardo franco dello smonto guardia. Siamo uguali, non commerciamo in soldi, non trattiamo calciatori, ma governiamo batticuori, in uno scatto sulle Alpi, o nel disostruire un’arteria femorale. Siamo uguali, Matteo, non altri, credimi. Siamo uguali, nella nostra solitudine, insostituibili, di fronte all’Izoard o a una fibrillazione atriale da convertire, e che non ne vuole sapere di rientrare... Siamo tutti titolari del destino, e non di una carta di credito.
Uguali, in cima talora ad un dolore, fisico o morale, che ci portiamo dentro ad ogni dopocorsa o ad ogni ritorno a casa dall’Ospedale. Che ce lo si legge negli occhi.
Vedi, Matteo, ero un bambino, e in quel tempo Paolo, in arte “Pasqualino”, con la borraccia di latta della bici si era procurato una brutta infezione sul ginocchio, tanto da non poter più pedalare per il dolore.
Ed arrivava in campagna, con una vecchia Ardea, lo zio Marcello, il medico condotto del paese, a disinfettarlo ogni pomeriggio, puntuale come al mattino la sveglia del gallo. E un bel giorno, un giorno bellissimo, quelli su cui non tramonta il sole, la ferita finalmente guarì, grazie alla attenzione minuziosa di quelle cure. “Ora puoi tornare sulla bici, contento?”. E in quel momento, Paolo, in arte “Pasqualino”, comprese una volta per sempre che se proprio non poteva essere un Ciclista sul serio, da grande voleva diventare un Medico così, per vero.
Buon futuro, da bici in corsia, Matteo.