Armando e Santisteban
di Gian Paolo Porreca
Caro amico
non ho fatto in tempo a raccontarti ancora di ciclismo, e semmai di Sanremo e semmai di un nuovo Giro d’Italia. Tanto che importa, quello che era ed è stato di importante, il ciclismo, ce lo siamo già detti, talvolta scritto. E tu, che eri il “capo” dello Sport al Mattino in certi anni speciali, avevi il tempo e il modo di chiamarmi pure, dall’interno 534, per dirmi che sì quel pezzo davvero ti era piaciuto, o che no, non condividevi l’apertura, e che volevi sempre un lessico semplice. Come quella volta, lo ricorderai bene anche lì dove sei, che per Pantani trionfatore a Montecampione scrissi che vi aveva trionfato un eroe eponimo... «Devi scrivere per il mio portiere, non per te, e secondo te il mio portiere sa che significa “eponimo”?».
Oggi devo scrivere però di cosa altro mi hai insegnato, di ancora più profondo, che travalica lo sport e anche quello principe che è il ciclismo. Ricordo - non lo sai, non te l’ho mai detto - lo sconcerto che mi colse, quando collaboratore in fondo nuovo, approdato con Sergio Zavoli al Mattino nel ’93, venni a sapere che il capo dello Sport che mi aveva in carico andava in altro settore e che tu - tu, Armando Borriello, una storia nobile di “Esteri” - ne prendevi il posto. Fra l’altro, quasi in contemporanea con il commiato di Zavoli dal giornale stesso.
E adesso, mi chiedevo, banalmente? Con chi parlo, primavera ’95, con chi mi confronto? E il consiglio spiccio di un amico giovane, Fabio, che mi consigliò linearmente: «chiamalo, e presentati...».
Caro Armando, non ricordo nella vita telefonata più difficile e alla fine più facile. «Mica posso mandarle un articolo sulla Tirreno - Adriatico che parte domani proprio da Pompei?», e la tua voce dall’altro lato netta, franca, senza fronzoli, «devi, dammi il tu». Non mi desti il tempo di spiegarti che volevo raccontare di un ciclista, Federico Ghiotto, che proprio sulle nostre strade, in una altra Tirreno aveva conosciuto una breve gloria, ma te lo avrei scritto di cuore pulsante l’indomani.
Cominciava così la nostra amicizia, e il nostro lavoro, non ti avrei mai chiesto, ricordi?, del passato giornalistico tuo, se poi il ciclismo davvero ti piacesse, o se era argomento di impegno quotidiano. E la condivisione dei temi di allora. Le vittorie, il doping purtroppo, e con quale impegno senza tregua, le grandi stagioni, l’estate immensa di Pantani del ’98, la capacità dell’autocritica, «sai, non mi sono piaciuto, per Marco Pantani a Madonna di Campiglio avremmo dovuto fare di più...», quelle venti righe pleonastiche che dovevi tagliarmi sempre. «Lo spazio è fisica, lo vuoi capire o no, kaiser, tu che lavori sui corpi?». Allo Sport, e che sport, questo capo che veniva, solo questo sapevo in fondo, dagli Esteri.
E un giorno diverso, poi, tutto nasce e finisce un giorno, salutasti tutti noi di quella Redazione - Toni, Vinni, Gaetano, Francesco, Bruno - per informarci che eri stato trasferito, promosso cioè, nel pool dei Caporedattori centrali. Mi chiamasti in disparte - «hai un altro verbo per non ripetere dire “ricordi”?», e mi svelasti un segreto prezioso, che non mi avevi mai confessato prima.
«Caro Paolo, ti devo dire una cosa, ora che lascio questa Redazione. Vedi, io non volevo più sentir parlare di ciclismo, perché nel 1976, quando ero un praticante all’ANSA per il Giro d' Italia, sono stato testimone in Sicilia, della caduta e della morte di quel povero corridore spagnolo, Santisteban. Fu un dramma straziante, una tragedia che mi è rimasta dentro, e una immagine che non dimentico. Ti ringrazio e te lo dico oggi, perché con le tue parole mi hai riportato agli occhi e nella mente il ciclismo come fosse ancora in vita. Grazie di cuore, e cerca di non cambiare nulla da quello che sei e che ci hai fatto leggere».
Non seppi risponderti, per l’emozione, allora. Ti abbraccio forte solo oggi Armando, oggi che una vita è finita e che la vita intera è cambiata.