Nostalgia di Pollentier
Tutta colpa nostra, lo sappiamo e lo sentiamo, perché cuore di riserva non ne abbiamo più, ma un Tour de France brutto come questo non lo ricordiamo. Chiunque vinca, scriviamo prima di Parigi, non sarà una vittoria per i nostri Campi Elisi.
Tutta colpa nostra, se non ci piacciono le processioni in bianco pure in salita del Team Sky, la mancanza di fantasia delle fughe velleitarie destinate ad essere fagocitate dall’inseguimento dei velocisti nella prima settimana, e i “fugoni” col segno più, quelli della seconda settimana, invece, con i validi comprimari fuori classifica, tutti insieme spassionatamente, che si sbizzarriscono a campioni di un giorno, o di un paio di giorni… L’utile inutilità di certe vittorie, da Fraile ad Alaphilippe, con un po’ di dispiacere personale, oseremmo, per De Gendt, che delle Grandi Fughe resta un egemone anche romantico.
Tutta colpa nostra, se di Thomas vs Froome, come di un giorno di Froome vs Wiggins, ce ne frega poco, baruffe vobiscum come fra Hinault e Lemond d’antan, e non ci turba oltre il concetto che un pistard iridato e oro olimpico possa vincere un Tour. Si può, si può, perché in fondo il primo iridato dell’inseguimento a vincere un Tour era nostro, nostrissimo, “mostrissimo”, ed era Fausto Coppi, campione del mondo in pista nel ’47 e nel ’49, e trionfatore al Tour del ’49 e del ’52.
Tutta colpa nostra, perché Nibali è stato disarcionato malamente sull’Alpe d’Huez e Colbrelli resta alle soglie del paradiso, e Caruso è un ottimo Caruso, e come Pozzovivo si replica, e Moscon resta peggiore di quello che si pensava, ad onta del liliale bianco Sky, ed allora di italiani infine questo Tour è deserto ?
E che il Tour del 2018 non è mica quello celeste del 1998, quello di venti anni fa e di sua maestà Marco Pantani, con la doppietta Giro - Tour sontuosa e una favola che mette i brividi o invoca solo il tenero refrain degli Stadio su un vecchio giradischi …
Noooo. E che questo Tour, sia stato pure di modesta Italia, ci è parso straordinariamente avaro di emozioni. Pletorico di offese, cadute, invasioni di campo, gendarmi al posto sbagliato, una nube urticante nell’aria, fra Bardet e Quintana, Roglic e Dumoulin, con qualche sfumatura di garbo in più per Kruijswijk.
No, nessuna particolare nostalgia da ribadire, è stata già fatta, del Tour ’98, santificato, con la curiosità semmai di dove siano i falsi miti della Festina come Virenque e Zulle, ma l’odioso Virenque innanzitutto, (e che carriera abbia fatto quel giudice Keil di Lilla, che costrinse in carcere il povero dottor Eric Rjickaert, nonostante fosse affetto da una patologia oncologica….).
No, no, no. E che l’assoluta assenza di una emozione una legata a questo Tour del 2018 ci suggerisce malinconia, e confronto in perdita, rispetto a qualsiasi altro Tour che ci passi rapidamente per la mente.
E restando al gioco della cifra tonda, c’è vivo rimpianto, al Tour 2018, chiunque lo vinca, anche per il Tour 1978. Sì, il primo vinto da Bernard Hinault, ma che ricordiamo bene tutti per lo scandalo di Michel Pollentier, vincitore all’Alpe d’Huez e prossimo quel giorno a vestirsi di giallo sul podio, ma colto in flagranza di reato al controllo antidoping, con un marchingegno di tubicini sotto la maglietta, e rispedito ex abrupto a casa….
Una strepitosa “fragranza” di reato che quel Tour, quaranta anni dopo, ci fa rivivere con un sorriso. Un Tour, quello, senza italiani neppure al via, e non solo strada facendo, come questo. Ma di un Kuiper caduto e uno Zoetemelk coriaceo, e di quell’Hinault stratosferico a cronometro. E di uno squadrone imperiale, la TI - Raleigh olandese di Knetemann e Raas, Karstens e Lubberding. Maestosa sì - e perciò sverniamo questa estate nel ’78 e vi lasciamo i commenti saggi sul 2018 -, ma vivaddio soltanto in pianura. (Come il cielo del ciclismo comandava, prima di Sky).