Sergio Giannosso è l’occasione che si è buttata via. È il talento che si è sprecato. È la testa che non è riuscita a star dietro alle gambe. Che giravano forte, da futuro professionista del ciclismo. “Un metro e settantasette per sessantotto chili nei giorni migliori, nelle foto più belle. Velocista: sullo scatto prendevo cinque metri che non mi rimontavano neanche a piangere”, racconta sicuro davanti alle foto di Luigi Ferrando e Jacques Anquetil, nella sede della cicli Monti di Baggio, tra le pieghe della periferia ovest di Milano.
All’anagrafe 1970, a vista qualcosina di più. Sergio é il secondo dei tre figli della signora Ippolita e del signor Giuseppe, partito da Cerignola per fare il muratore a Baggio, dove era più facile andare in bicicletta che giocare a pallone. “Da piccolo il papà mi portava alle gare ciclistiche per vedere mio cugino Alberto che correva. Mi piaceva, ma tanto, che al momento buono gli ho chiesto subito una bici da corsa. Avevo sette anni e lei era rossa: bici Tunisi. Correvo per la Coime di Cornaredo, paese qui vicino; la prima gara ho sbagliato due curve, la seconda l’ho vinta”.
Il papà forse ci spera, di sicuro ci pensa. Dopo il lavoro lo porta ad allenarsi nelle strade lì intorno, e non è poco visto il mestiere che fa, ma non è che butta il suo tempo. Il suo ragazzino ci prende gusto col ciclismo e sbriga la trafila delle giovanili con le maglie della Arrigoni, Solvea e Nuova Baggio di Alcide Cerato, con le bici del Pep Magni, meccanico di Renato Longo e di quattro olimpiadi con la nazionale.
Poi la Sironi Tanzi per la categoria juniores e per cominciare a fare sul serio: «ho vinto il Giro della Bassa Padana e L’indicativa regionale di Seregno. Ho vinto il campionato provinciale milanese del 1985. Ho vinto a Turano di Massa, a Rho con 250 partenti, ho vinto Zibido San Giacomo. Ho vinto di tre bici, ma anche di tre macchine, ho vinto comunque da solo. Qui ho vinto di poco ma devi vedere da dove sono partito, qui ho vinto e basta». Nomi di corse, di paesi che organizzano corse, di titoli per quelli che vincono le corse; e Giannosso se non vinceva si piazzava, che non è poco. Tutto certificato da due album di fotografie che maneggia con delicatezza, come una bella signora con il suo cofanetto di gioielli. E indica, e spiega e entra nei dettagli. Che sia chiaro, perché quelle cose lì non gliele toglie nessuno. «Al Vigorelli? - quasi se la ride - Guarda che ho vinto anche a Dalmine, Cremona, Fidenza e al Palazzetto dell Sport di Milano». Velodromi e piste che ha conosciuto e che lo hanno conosciuto.
Dopodiché Sergio prende risultati, premi e elogi e li mette in valigia, per presentarsi a Villa d’Almè, sede del al ritiro della Remac Verynet di Mario Cioli, con direttore sportivo Olivano Locatelli. E’ la fine degli anni ottanta e lui ci va per fare il dilettante. «Dividevo la stanza con Matteo Fagnini, Simone Blasci, Fabio Casartelli, Gianluca Bortolami» Dilettanti passati professionisti agli inizi degli anni novanta, «mentre quelli diciamo più grandi erano Wladimir Belli, Ivan Gotti»; saranno professionisti vincenti. Per dire che alla Remac vincere era normale e non vincere poteva diventare spiacevole, «come quella volta che il migliore dei nostri aveva fatto quinto e io, appena tagliato il traguardo e nasato il clima, ho infilato la mantellina per tornare a Villa d’Almè in bici, da Corsico dove eravamo - 60 chilometri tutti - perché quando non vincevamo poteva succedere di pedalare fino a casa, a corsa appena finita. Nessuno diceva niente, era così e basta».
E così era il ciclismo. Regole non scritte che tutti rispettano perché la Remac é la carta d’imbarco per il professionismo. Ma che aggiunte ai giorni di ritiro che sono tanti, ai chilometri pedalati che sono tantissimi, alle altre regole e altre eventuali punizioni, pesano sulle gambe ma soprattutto sulla testa. Sergio per un po’ ci prova, ma fa fatica a starci dentro. Chi lo conosce parla di un carattere a spigoli, di liti in corsa, di parole che volano e di scarpe che atterrano, addosso agli avversari. «In corsa mi facevo rispettare, gomitate e spallate erano la mia vita, anzi: correvo solo per vivere l’adrenalina dell’ultimo chilometro. Il brutto carattere mi è venuto dopo».
Di fatto per Sergio è la fine del gioco. Mentre i suoi compagni vanno al Giro di Venezuela e nel resto del mondo per il terzo anno da dilettanti, il più importante, lui deve anche ripetere la maturità di geometra, e poi fare il servizio militare, ma come uno dei tanti non alla compagnia atleti, che proprio da quell’anno non é più a Milano. È crollo verticale, ma lui non prende scuse. «È colpa mia che non ho continuato, Locatelli mi aveva anche suggerito come. Avrei potuto riprendere col ciclismo e passare professionista un paio d’anni dopo. E invece ho mollato la bici e per quindici anni non ne ho più voluto sapere. Ho il solo rammarico di non aver fatto il ciclista a tempo pieno, almeno per un anno».
Quel diploma l’ha poi preso, per metterlo da qualche parte: «ma lo sai che oggi l’edilizia è morta, vero?» Del ciclista professionista che poteva diventare gli è rimasto lo sguardo da lupo che osserva il gruppo tra gli alberi del bosco, e un grande senso del posizionamento, dice chi oggi corre con lui. «Sono trenta chili sopra il mio peso ma riesco ancora a divertirmi, e arrivo pure davanti».
E mentre lo dice, Sergio si stropiccia Niccolò, il figlio di dieci anni avuto con Francesca, sua moglie. Niccolò gioca a pallone e tifa Inter, che per un ciclista e milanista come lui può sembrare una sfida; di sicuro è una nuova occasione in cui é raccomandabile usare la testa. E a vederli assieme sembra che stavolta Sergio lo stia facendo per bene.
Alessandro Avalli