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LE STORIE DEL FIGIO. LE AVVENTURE DI OCTAVIO "BIG JIM" DAZZAN
di Giuseppe Figini | 28/01/2021 | 08:05

Potrebbe proporsi, parafrasando un noto romanzo di Edmondo De Amicis, “Dal Friuli alle Ande e ritorno”, la vicenda della famiglia di Octavio Dazzan, nato a Buenos Aires il 2 gennaio 1958. Ecco spiegata la grafia del nome proprio, alla spagnola, per questo bravo velocista che ha iniziato a correre vestendo, nelle rappresentative nazionali, la maglia “albiceleste” dell’Argentina con la quale conquistò il titolo mondiale “juniores” nella velocità nel 1975, anno dell’istituzione del torneo iridato anche per questa categoria di giovani, sulla pista di Losanna, in Svizzera. Il biondo bresciano Roberto Visentini, nome ben noto nel mondo delle due ruote, si propose alla ribalta internazionale In quell’anno vincendo la prova su strada e quella fu la base di partenza per la sua corposa e rilevante carriera, talvolta discontinua, anche nel professionismo, comunque illuminata soprattutto dalla vittoria della maglia rosa del Giro d’Italia nel 1986.

Torniamo però subito al nostro protagonista, Octavio Dazzan, poliedrico specialista delle discipline veloci, cercando di inquadrare l’ambiente della sua origine, la sua storia familiare che ha radici nel Friuli-Venezia Giulia, nel comune di Palazzolo dello Stella (lo Stella è il fiume di risorgiva che attraversa l’abitato), nella bassa pianura friulana, verso il Veneto, luogo di nascita di Gae Aulenti (1927-Milano 2012), celeberrimo designer e architetto.

Il papà di Octavio, Luigi Silvio, tornato a casa dopo la seconda guerra, ha gareggiato in bici nelle categorie giovanili prima di decidere – era il 1949 –, con una quindicina d’amici, di tentare la fortuna in Argentina fruendo dell’occasione di un passaggio in nave, da Genova all’Argentina, “gratis”, a Buenos Aires per la precisione senza pagare il biglietto. All’epoca la vita in zona era dura assai e le possibilità di lavoro, aldilà di quelle dell’allora stentata agricoltura locale, non offrivano prospettive minimamente allettanti se non l’emigrazione, lasciando il “fogolar” quasi abitualmente affollato da troppi commensali di troppo, robustissimo, appetito rispetto a quanto la tavola poteva offrire.

In Argentina era il periodo del primo governo del discusso presidente, il generale Juan Domingo Peron, che favoriva l’immigrazione con prospettive di lavoro nel suo estesissimo territorio.

Luigi Silvio Dazzan s’imbarca a Genova su una nave insieme agli amici che condividono e, in un certo senso, vivono, un po’ allegramente, tale nuova esperienza con spirito e atteggiamento definibile come quasi - ma molto quasi - turistico. Per contro, lui si era offerto invece subito per svolgere vari tipi di lavoro, anche i più umili e faticosi, che gli fruttarono, con la benevolenza del comandante la nave, qualche soldo, sigarette, cioccolata e altri generi di minuto conforto. Non spende i soldi e monetizza invece la merce con gli amici e altri “crocieristi”.

Il viaggio è lungo così come la quarantena in porto. Il gruzzoletto accantonato si rivela prezioso e sufficiente per consentire l’acquisto di un piccolo lotto di terreno in una località, Quilmes, a una quindicina di chilometri nel territorio della megalopoli Buenos Aires e iniziare la costruzione di una casa. Il papà di Octavio lavora sodo presso una bottega che realizza telai ciclistici, proprietario era Eugenio Gobet, argentino di discendenza francese, frequentata poi anche da Octavio. Era il 1972 e Dazzan, già con fisico possente (non quanto però come ai tempi recenti….), inizia pure lui a gareggiare nelle categorie giovanili in un ambiente ciclistico ricco di fermenti e passione, alternando strada e pista con promettenti successi concretizzati con l’iride “juniores” nel 1975.

Merita un seppur schematico e scarno inciso, il riferimento al ciclismo in Argentina che, pur se con diversa formulazione rispetto a quello dei bacini storici, ha sovente proposto, in diversi tempi, nomi e attività di buona e polivalente valenza come Jorge Batiz, Bruno Sivilotti, nato a Ragogna, in Friuli, poi argentino giramondo con lunga carriera. La pista era molto attiva con la Sei Giorni di Buenos Aires, assai frequentata anche da corridori italiani negli anni 1950/’60 e poi, nel tempo, si possono ricordare – fra molti altri – i nomi dei fratelli Juan e Gabriel Curuchet, dinastia continuata dal figlio di Juan Ignacio, con assidua presenza per tutti in Italia. Poi, più vicini a noi nel tempo, emergono i nomi di Juan Antonio Flecha (nato a Buenos Aires e poi naturalizzato spagnolo), Juan Josè Haedo, Maximilian Richeze, Walter Perez, corridori di specifico spessore.

La situazione politica argentina è sempre stata assai mutevole e variabile. Nel 1973 torna in primo piano il partito peronista, dopo diciotto anni d’esilio del leader, ma, dopo un travagliato governo avviene, nella metà degli anni 1970, il “golpe” con i militari che assumono i pieni poteri.

Octavio Dazzan ricorda d’avere visto dalla sua casa passare, nel marzo 1976, una lunga teoria di mezzi militari diretti nei punti strategici di Buenos Aires e, quasi immediatamente, in famiglia, nasce l’orientamento di fare rientrare Octavio in Italia. I contatti con la patria e la zona d’origine erano sempre stati mantenuti grazie anche ai rapporti ciclistici, e non solo, intrattenuti con il Friuli, soprattutto nella persona di Sereno Pontoni, lo zio di Daniele Pontoni, il grande specialista del ciclocross, due volte iridato.

Con i buoni uffici di Sereno Pontoni, Octavio Dazzan nel 1976 opta subito per la cittadinanza italiana ed è accolto a Roma nelle fila del Corpo Forestale. In maglia verde della Forestale hanno gareggiato molti specialisti delle due ruote, soprattutto nel settore pista.

E, subito nel 1976, al secondo anno da “juniores” vince la maglia tricolore nella velocità e quella azzurra, nelle rappresentative nazionali, un azzurro che diventa una seconda pelle quasi per Dazzan che indossò poi, con continuità, nelle varie manifestazioni, per più di quindici anni e raccogliendo numerose affermazioni di primario rilievo in occasione  dei più importanti meeting a livello mondiale, europeo e nazionale.

Fra i dilettanti, dopo la Forestale, nel 1979, passa al G.S. Fiat di Torino guidato dapprima da Giuseppe Graglia e poi da Italo Zilioli. Con questo trasferimento evita l’embargo per appartenenti ai corpi militari di partecipare alle Olimpiadi di Mosca nel 1980 dove è ottavo nella velocità.

Nel 1980 passa professionista e, per un biennio è alla Zonca di Voghera, poi altri due anni al Club parafederale degli Amici della Pista, e quindi alla Brancale, azienda di componentistica ciclistica, nel 1984 e poi alla Carrera Jeans nel 1985. Gli anni seguenti gareggia per la Santini Cierre nel 1986, Selca 1987-88 guidata dal concittadino torinese Gianni Savio, e poi da individuale. Lo stop nel professionismo è nel 1989.

Il suo palmarès presenta tre ori europei e un argento nella velocità, mentre nei mondiali, quattro argenti e due bronzi variamente ripartiti fra velocità e keirin, le specialità nelle quali eccelleva Octavio, detto anche amichevolmente “Big Jim” per l’imponenza del fisico.

E’ stato molto vicino a un notissimo giornalista torinese, Ruggero Radice – “Raro” – la sua sigla, elegante figura nel mondo delle corse e, per la rassomiglianza con un divo del cinema dell’epoca, “baffi compresi”, era conosciuto pure come il Clark Gable italiano. Nella sua età avanzata, impossibilitato a camminare, Raro era sovente accompagnato da Octavio Dazzan a corse e ricorrenze varie del clclismo torinese.

Dazzan è rimasto, pure professionalmente, nel settore delle due ruote e con un’avviata attività artigianale con una linea di biciclette con il suo nome ed è indicato da molti utenti delle due ruote, di vario tipo, quale ottimo conoscitore e “curatore” delle specificità meccaniche nella zona di Settimo Torinese, trovando pure il tempo di seguire formazioni giovanili. E’ sovente in contatto con vari amici legati all’Argentina e alla “piccola patria” friulana.

E, da ex pistard, quando passa dal glorioso motovelodromo torinese di Corso Casale 144, poi intitolato a Fausto Coppi, non può sottrarsi al rimpianto di quello che fu, in tema d’attività e di nomi, il passato della struttura.

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