Gli mancò un niente: “Era il 1959. Fausto Coppi mi chiese se volessi entrare nell’Aurora, una squadra di professionisti con base in Costa Azzurra e con giovani corridori di diverse nazionalità, un suo progetto visionario, all’avanguardia, paragonabile alle attuali formazioni Continental dei club WorldTour. Ma Coppi morì e il progetto non sbocciò”.
Gli mancò un perché: “Era il 1960. Olimpiadi di Roma. Mi dissero che ero osservato, poi mi dissero che ero selezionato, poi mi dissero che ero convocato, finché all’ultimo momento fui lasciato a casa. Ci rimasi malissimo”.
Gli mancò un secondo perché: “Era il 1962. Mondiali di Salò. Il quartetto della cento chilometri. Maino era spremuto dopo il Tour de l’Avenir. E io volavo. Ma scelsero Maino. E l’Italia vinse, anche se Maino, che non stava bene, dopo una quindicina di chilometri abbandonò”.
Gli mancò anche un po’ di fortuna: “Vincevo poco, sbagliavo tanto, detengo ancora il record delle forature, in particolare quelle vicine al traguardo”. Ma Franco Lotti detiene anche un altro record: è il corridore, di tutte le epoche e di tutte le discipline, capace di declamare – a memoria - dieci canti della Divina Commedia: “Sette dell’Inferno: il primo, il secondo, il terzo, il quinto, il ventisettesimo e il trentatreesimo. Uno del Purgatorio: il quinto. E due del Paradiso: il ventitreesimo e il trentatreesimo. Li ho imparati da solo. E li declamo a occhi chiusi e col cuore aperto”.
Ottantaquattro anni, toscano di Pontassieve, poi di Colognole, infine di Scopeti, a Lotti sarà mancato qualche favore del destino, ma non l’avventura della vita: “Durante la Seconda guerra mondiale due soldati tedeschi ci misero in fila a casa nostra. Da lontano avevano avvistato un asino. Era la nostra unica ricchezza. Da vicino trovarono solo noi. L’asino, e anche mio padre, erano alla macchia, nel bosco. Quegli attimi fra la vita e la morte ti segnano per sempre”. Poi: “Dopo la guerra non si aveva più nulla. Andavamo in giro a raccogliere schegge di bombe, venderle a peso e con quegli spiccioli acquistarci da mangiare”. Poi: “Elementari, medie, un anno di istituto d’agraria, il ciclismo”.
E il ciclismo fu un sogno a occhi aperti: “Nel 1959 correvo per la Brooklin di Empoli, compagno di squadra e di camera di Venturelli. Ci si intendeva bene. Meo con gli altri era taciturno, con me loquace. Quella corsa internazionale a Firenze, quell’altra – la Coppa Fusar Poli – a Romano di Lombardia, che vinsi io. E tutte quelle che vinse lui. E quella in cui scappò un belga, vai tu, vado io, andai, lo ripresi, il vento contrario, ci il c.t. Proietti su una Giulietta sprint rossa, ci disse che ‘quello è un fijo de na mignotta’, voleva dire che in volata era veloce e bisognava staccarlo prima. Cinque minuti dopo la fine della corsa eravamo già in albergo. Meo si stese su un letto e mi disse di prendergli il polso. Aveva 42 battiti al minuto. Trapè era forte per voglia e tigna, Meo per natura”.
Finalmente il professionismo: “Era il 1964. Alla Cynar. Ritrovai Maino e Zandegù. Fui ancora perseguito dalle forature. Al Giro del Piemonte, alla Milano-Torino, al Giro della Provincia di Reggio Calabria. Forai anche alla Milano-Sanremo. Davanti, in fuga, Simpson e Poulidor. Dietro, all’inseguimento, il gruppo, diventato un gruppetto di una ventina, c’ero anch’io, ma giù dal Berta forai, l’ammiraglia era lontana, e quando sopraggiunse la mia corsa era finita”. Niente Giro d’Italia: “Eravamo in 17, e due posti erano riservati a due svizzeri. Feci il Giro del Lussemburgo: undicesimo in una tappa, nono nella classifica finale. Poi altri piazzamenti. Alla fine della stagione la squadra si sciolse e io rimasi a piedi”.
Ma c’era la vita, c’erano sempre le avventure della vita: “Cambiai l’ultimo assegno della Cynar, che comprendeva uno stipendio e i premi, in un rotolino di banconote da diecimila lire, lo consegnai a mia madre, pochi giorni dopo morì. A casa c’era bisogno di me. Trovai un posto da piazzista, avrei fatto il rappresentante tutta la vita, con alterna fortuna, perché mi sono trovato in un abisso di debiti per aver dato fiducia a chi non ne meritava, ma ho pagato tutti, e adesso sono sereno, ho fatto il meglio di quello che mi è stato concesso, e non ho nulla da rimproverarmi”.
Un rammarico, quello sì: “Il ciclismo. Ho spento il motore quando avevo ancora quasi il pieno”. Ma c’è Dante: “Una passione nata da ragazzo e mai tramontata. In quei canti, in quei versi, in quelle parole ci sono il senso e la storia della vita”.