Giro d’Italia, sala stampa, conferenza stampa. Prima il vincitore di tappa, poi la maglia rosa. Gli appuntamenti quotidiani, gli incontri rituali, il momento in cui raccogliere dichiarazioni e confidenze, impressioni e sensazioni, dettagli e soprattutto notizie, e poi trasferirle in pezzi – cronache, racconti, interviste – per il giornale. Guardandosi negli occhi. Prima del Covid, il giornalismo si faceva a stretto contatto. E nel ciclismo più che in altri sport. La conoscenza fra corridori e giornalisti cominciava a Donoratico e a Laigueglia e continuava fino al Lombardia, fra piccoli e grandi giri, fra classiche e circuiti, fra strade e alberghi, fra viaggi e raduni. Ci si conosceva bene, tutti, corridori e giornalisti, anche fra corridori (adesso non è più scontato, ci sono compagni di squadra che si vedono un paio di volte l’anno perché seguono calendari opposti), anche fra giornalisti (avevamo il privilegio di seguire le corse dai marciapiedi, non dalle redazioni).
Giro d’Italia, sala stampa, conferenza stampa. Quando le domande - le classiche: com’è andata la tappa, quando è nata la fuga, quando è cominciata la volata?, come vedi i tuoi avversari?, quali saranno le tappe decisive?, chi vincerà il Giro?, e tu?, cui seguiva il salomonico “corriamo alla giornata, tappa dopo tappa, poi vedremo” -, un giornalista alzò la mano, non con timidezza ma con rispetto, non con imbarazzo ma con discrezione, e alla maglia rosa domandò se fosse felice. Una domanda profonda e solenne, bellissima, tutt’altro che banale, tutt’altro che prevista. Seguì un lungo attimo di riflessione. Forse la maglia rosa pensò ai suoi sogni di bambino e alle sue fatiche di uomo. Forse i giornalisti pensarono che le graduatorie non fossero soltanto quelle a tempo o a punti, quelle dei traguardi volanti o dei gran premi della montagna. Io pensai che quel giornalista apparteneva a una categoria superiore. E che prima o poi saremmo diventati amici.
Nando Aruffo è un mio amico. Lui dice di aver lavorato per due giornali e mezzo: il “Guerin Sportivo” e il “Corriere dello Sport”, i due interi, e “Il Centro”, il mezzo. Interi e mezzo non per l’importanza dei giornali, ma per il tempo – anni di vita - che lui vi dedicò. Conoscendo la dedizione alle testate e la passione per lo sport, oserei correggerlo: due vite e mezza. Adesso, come me, continua a scrivere (e a leggere, studiare, incontrare, insomma: vivere) cercando di non togliere contratti, spazi e soldi ai giovani. Quindi, niente più cronaca, ma pensieri, storie, ritratti, anche semplice manovalanza volontaria. Con quella antica esigenza di ritrovare, ritrovarsi, ritrovarci insieme. Con quell’eterno bisogno di chiarire, spiegare, cercare la verità. I giornalisti, soprattutto quelli di ciclismo, sono geneticamente portati a riprodurre quei giri, quelle sale, quelle conferenze anche fuori dalle corse. Perché erano momenti pieni, ricchi, umanissimi.
L’altra sera, nella sua Paglieta, Nando ha organizzato uno di questi incontri corali. Parenti, amici, anche fra corridori, e così ha invitato Danilo Di Luca e Moreno Di Biase giornalisti, anche fra giornalisti, e così ha invitato. E tutti intorno a una tavolata, la condivisione di una chilometrica pasta alla mugnaia, più involtini e pallotte cacio e uova, più frappe e cicerchiata, con vini abruzzesi doc. E sempre tutti intorno alla tavolata, la condivisione di racconti rotondi: fughe, volate, tradimenti, vittorie, piazzamenti, cotte, gruppetti.
E Nando Aruffo mi sembrava proprio contento, anzi, felice.