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ANDREA PICCOLO, IL TALENTO RITROVATO
di Nicolò Vallone | 30/09/2022 | 08:10

Andrea Piccolo è diventato professionista la scorsa stagione e da allora ha già all’attivo cinque squadre ma ha dovuto attender il 28 agosto scorso per disputare la sua prima corsa nel World Tour. Una carriera estremamente giovane, quella del milanese, ma a suo modo davvero unica. Ve la raccontiamo con la speranza che inizi possibilmente a diventare un po’ meno particolare e un po’ più “normale”. In una lunga chiacchierata su Zoom col diretto interessato, abbiamo ripercorso la sua vita ciclistica dall’inizio fino all’oggi... e al do­mani.

Ciao Andrea, come ti sei avvicinato alla bicicletta?
«Sono nato nell’ambiente: mio papà Re­nato andava in mountain bike, mio fratello maggiore Simone correva (oggi è in una Continental, la Mg Kvis, ndr) e mio zio Enzo Battistella ha un negozio di bici: per me è stato naturale mettermi in sella quando non ave­vo nemmeno sei anni, ho iniziato a pe­dalare dai G0.»

Sei sempre stato un vincente?
«Nei Giovanissimi ho vinto tanto, da Esordiente ho fatto “solo” cinque vittorie all’anno ma lì dipende sempre da quando inizi lo sviluppo da bambino a ragazzo. Dal secondo anno Allievi mi sono sbloccato e da lì è cominciato dav­vero tutto.»

Hai condiviso la tua trafila giovanile con qualcuno che poi è diventato professionista o comunque si è avvicinato a quel li­vello?
«Da quando ero Allievo ho corso di continuo con Antonio Tiberi da avversario. In alcune gare, mi è capitato di incrociare Filippo Baroncini.»

Chi è il tuo migliore amico nel ciclismo?
«Il milanese Alessandro Baroni, che ha la mia stessa età e oggi corre in Col­pack: con lui ho passato i momenti più belli e più brutti, quando torno a casa ci alleniamo sempre insieme ed è l’unico che nel contesto ciclistico c’è sempre stato.»

Ci dici qualcosa di tutte le tue società giovanili?
«Dalle prime pedalate fino al primo anno Allievo compreso, sono stato nel Velo Sport Abbiategrasso che era praticamente la squadra di casa (Andrea è di Magenta, provincia ovest di Milano, ndr): loro sono una seconda famiglia, tuttora quando ho bisogno di fare un po’ di “dietro moto” chiamo il mio direttore sportivo di allora, Severino Tosello, ed è sempre pronto a raggiungermi con la sua Vespa. Il 2017 poi l’ho fatto alla Senaghese, dove due anni prima Andrea Bagioli aveva vinto campionato italiano e Coppa d’oro quindi nel milanese era vista come la squadra migliore: ho lasciato un pezzo di cuore nell’andar via dal Velo Sport, tuttavia loro facevano fino agli Allievi dunque ho scelto di anticipare di un anno i sa­luti e sono andato con entusiasmo in Senaghese. Dopodiché il ’18 e il ’19 da juniores li ho fatti con il Team LVF, in provincia di Bergamo».

Già, un biennio juniores nel quale ottieni in totale 26 vittorie: per ricapitolare, a cro­nometro conquisti un bronzo mondiale a Innsbruck nella prova vinta dal prodigioso Evenepoel, l’oro europeo ad Alk­maar e in entrambe le annate il titolo italiano; in linea vinci giri importanti per la categoria, come Friuli e Lu­ni­giana, un secondo posto ai campionati nazionali e un terzo agli Europei... Cosa provavi du­rante quei due anni?
«Devo essere sincero, al primo anno sono rimasto stupito anch’io: non mi aspettavo tutti quei successi; c’è da di­re che eravamo un top team per la categoria e soprattutto con Samuele Ru­bino (oggi nei dilettanti ndr) in diverse occasioni abbiamo giocato ottimamente di squadra. Eravamo diretti da Mar­co Della Vedova e Paolo Valoti, i due diesse più bravi che io abbia mai avuto. Al termine di quella prima annata avevamo fatto registrare il record storico di vittorie della LVF e io dissi a un raggiante Patrizio Lussana “Presi­den­te, l’anno prossimo ne facciamo ancora di più”... ed effettivamente ci riuscimmo: in quel 2018 avevamo superato le quaranta, nel 2019 toccammo addirittura quota cinquanta!».

Prima di proseguire col racconto, una pa­rentesi: sempre più appassionati e addetti ai lavori lamentano che ormai in Italia si cerca il risultato a tutti i costi già alla ba­se e si trattano i ragazzini come fossero professionisti. Tu che dai vivai ci sei passato da poco in prima persona, cosa ne pensi?
«Sono d’accordo. È un sistema che ten­de a stressarti e farti vivere ogni corsa  come fosse un Mondiale: non sono so­lo gli allenatori, ma spesso anche i ge­nitori a voler spingere un ragazzo a ri­sultati che magari in quel momento non è in grado di ottenere. Prima ho parlato di Della Vedova e Valoti come i migliori direttori sportivi che io abbia avuto, ma non perché ci facevano vincere: li ho definiti così perché noi andavamo alle corse senza pensare di dover per forza al successo. Che si perdesse o si vincesse, era sempre una festa a fine giornata. In tal modo il ciclismo non mi è mai pesato.»

Riprendiamo da dove eravamo rimasti. Forte di un palmarès juniores invidiabile, entrano in gioco due elementi: la Colpack e il Covid-19...
«Tre elementi in realtà: a inizio 2019, in piena carriera juniores, avevo effettuato uno stage con l’Astana a Calpe, ero rimasto in contatto con Beppe Mar­­tinelli, infine avevo firmato col team kazako un pre contratto e a gennaio 2020 andai in ritiro con loro. Ero super focalizzato per partir forte. Chia­ra­men­te, per una delle tante regole che esistono solo in Italia, dovevo prima passare dal “gradino intermedio”: cercai una società che potesse farmi di­sputare l’obbligatoria stagione da Un­der 23 e trovai la Colpack. Esordii al Trofeo Laigueglia e corsi la coppa San Geo; poi fu lockdown. Sono stati mesi strani, in certi momenti non sapevo bene cosa fare, però alla fine avevo il permesso, in quanto ciclista, di passare del tempo fuori in bici e, appena possibile, ho aiutato parecchio mio zio in negozio. Dover fare tutti quei rulli era un po’ pesante, è vero, ma grazie alle tecnologie a disposizione, seppur virtualmente ci allenavamo “in gruppo” lavorando in videochiamata.»

Quello peraltro, facendo due calcoli, sa­rebbe stato per te l’anno della maturità: in quei mesi sei riuscito a portare a termine la scuola?
«L’avevo già portata a termine l’anno prima, di fatto. Mi spiego: avevo frequentato un istituto professionale da operatore meccanico su veicoli a motore, che al termine della quarta già mi aveva permesso di conseguire un diploma per poter svolgere pienamente quel lavoro. Per cui, con un attestato in ma­no e la Astana alla finestra, avevo deciso di fermarmi e non fare l’ultimo anno di superiori, così da concentrarmi pienamente sul ciclismo che, nel giro di un anno e mezzo, sarebbe diventato ufficialmente il mio mestiere. Tuttavia, in quel 2020 trovai comunque modo di “andare a scuola”...»

In che senso?
«La Federazione in quei mesi di coronavirus diede la possibilità ai tesserati di seguire i corsi da direttore sportivo: io ho fatto tutti e tre i livelli nella stessa classe del futuro c.t. Daniele Bennati. Sì, due anni fa ho studiato insieme a Bennati».

E tanto focus sul ciclismo ti ha portato bene: alla ripresa dell’attività ad agosto 2020 andasti subito forte!
«Eh sì, secondo dietro Jonathan Milan nei campionati nazionali a cronometro U23. La sfortuna inizia però un mese dopo, al Giro Giovani: mi ritiro a cau­sa di una caduta e prendo degli antidolorifici, non sapendo che avevo in cor­so mononucleosi e citomegalovirus. Mo­­rale: m’intossico il fegato e mi por­to questi problemi di salute fin nei pri­mi mesi dell’anno nuovo.»

Per questo, quando allo scoccare nel 2021 passi come da contratto alla Astana, non riesci mai a debuttare...
«Esatto, mi presento al ritiro ma purtroppo ho i valori sballati, ancora troppo alti. Mi alleno il giusto, senza poter forzare e potendo solo aspettare: non esiste una cura, questa intossicazione al fegato passa da sola col tempo. A maggio i valori tornano a posto, ma come ben sapete in Astana si verificano nel frattempo parecchi problemi interni (Vinokurov e alcuni elementi dello staff tecnico vengono licenziati e sostituiti, ndr) e non trovo il modo di correre. Da qui la decisione di rescindere...».

Così, senza ancora aver corso da pro, cam­bi squadra a metà stagione: non si vede tutti i giorni un salto all’ingiù direttamente da un World team a un “semplice” club: come nasce la decisione di firmare per la Viris Vigevano?
«La Nazionale mi contatta per darmi l’opportunità di partecipare a qualche gara di fine stagione insieme ai professionisti, ma per poterlo fare devo per forza essere tesserato per una so­cietà: in quel momento corrono in Vi­ris sia mio fratello Simone che il mio migliore amico Alessandro Baroni, si tratta di una squadra vicino casa... in­somma, è la mossa più veloce per essere convocabile: in un paio di giorni mi tessero e finalmente posso correre.»

In parte coi dilettanti vigevanesi, in parte con la maglia azzurra, riesci a disputare gare .1 e U23: sei secondo al GP Capo­darco, vinci il Festa del Perdono, il Giro del Valdarno e la Coppa Collecchio, e chiudi l’autunno piazzandoti nei primi dieci in Piccolo Lombardia e Veneto Classic... anche lì, cosa provavi?
«Sai, io a inizio anno ero entrato nel World Tour a livello puramente nominale: vestivo la maglia dell’Astana in allenamento, ma con loro non avevo avuto più dei veri contatti in seguito a quel ritiro dove erano stati confermati i miei problemi di salute. In fin dei conti questo alla Viris non l’ho mai considerato un passo indietro, dato che non avevo compiuto realmente il passo avanti. Non ho niente da recriminare».

Continuiamo la narrazione: lo scorso inverno cosa succede?
«Si concretizza qualcosa che era nato già dopo Ferragosto, dopo Capodarco: la Gazprom RusVelo mi chiama, io co­nosco Dmitri Sedoun dalle mie vicende in Astana e questa è la prima squadra a darmi concretamente fiducia e propormi un ingaggio per la stagione seguente. I primi di settembre firmo e tutto sembra perfetto: concludiamo il 2021 con venti giorni di ritiro in Spa­gna e apriamo il 2022 allo stesso identico modo, in gruppo si respira una bellissima atmosfera. Rompiamo il ghiaccio alla Valenciana, poi ho in programmma Oman e Uae Tour ma da Valencia sia­mo tornati tutti positivi al covid. Una volta negativizzato, a fine febbraio mi mandano sul Teide insieme a Conci, Carboni, Zakarin e Diaz per preparare chi la Volta Catalunya chi la Tirreno-Adriatico...».

E mentre vi trovate lì a Tenerife, scoppia la guerra tra Russia e Ucraina e alla vigilia del Laigueglia l’UCI vi impone lo stop: cos’hai fatto nei successivi quattro mesi di stallo?
«Mi sono allenato. Tanto. Sono rientrato a casa il 7 marzo e, da lì a fine aprile, il team continuava a dirci che stavano cercando di smuovere qualcosa e ci indicava delle gare a partire dal­le quali forse avremmo potuto tornare a correre. Continuavo allora a lavorare sodo per tenermi in condizione e intanto ho cambiato procuratore: dai fratelli Carera sono passato a Omar Piscina e Giuseppe Acquadro, con cui avevo un ottimo rapporto. A maggio è parso definitivamente chiaro che non c’era nulla da fare per la Gazprom perché era saltata la possibilità di ripartire con sponsor svizzero, nel mentre vedevo alcuni compagni correre con la Na­zionale mentre io non ho avuto questa occasione. Un po’ arrabbiato, un po’ deluso, mi sono inventato una piccola pazzia: durante le tre settimane del Giro d’Italia ho svolto una sorta di Giro fai-da-te, nel senso che ho pedalato 3100 chilometri in 21 giorni nelle mie zone, per un totale di oltre 100 ore in bici. Non guardavo la corsa rosa in tv perché ero impegnato a... riprodurla personalmente nel chilometraggio: an­davo specialmente sui laghi, verso Va­re­se e Arona, mi facevo 5-6 ore e spesso e volentieri rientravo a casa dopo l’arrivo di tappa.»

L’estate bussa alla porta di tutti noi, men­tre alla tua bussa un’altra Pro­fes­sional...
«Acquadro conosce bene Gianni Savio e gli ha parlato della mia situazione: il Principe era ben contento di potermi dare una mano e ci siamo accordati in breve tempo per un contratto senza penali. Il difficile è venuto dopo: siamo stati in ballo un mese, l’UCI continuava a rifiutarci le proposte senza dirci come avremmo dovuto strutturarle correttamente. Finalmente hanno accettato la quinta proposta, appena tre giorni prima del campionato italiano. Non ci credevo quasi più.»

E in Drone Hopper Androni il rilancio giunge immediato!
«Arrivo in Puglia il giorno prima della corsa, dei nuovi compagni ne conoscevo personalmente solo alcuni. Domeni­ca 26 giugno sono 250 chilometri di gara sotto il sole cocente, ma a casa mi sono allenato a dovere con l’aiuto del preparatore Pino Toni, che la settimana precedente mi ha assicurato che ho i numeri per far bene: ha ragione, centro l’attacco giusto e arrivo quarto. Ho il morale alle stelle, anche perché la sera stessa Acquadro mi chiama e mi dice che ha ben due formazioni World Tour pronte a prendermi già dal 1° agosto.»

Cioè, nemmeno il tempo di prendere continuità ed ecco presentarsi la tua terza squadra dell’anno (la quinta in appena due stagioni).
«La settimana successiva mi classifico sesto al Sibiu Tour in Romania e subito dopo Acquadro mi fa conoscere Jo­nathan Vaughters. Stabiliamo il tutto e nell’ultimo lunedì di riposo del Tour de France il contratto viene depositato».

Vaughters sta lavorando alacremente col tuo agente (ricordiamo che Acquadro è specializzato in corridori sudamericani): il manager americano ha ingaggiato i suoi assistiti Amador, Cepeda e Carapaz per il 2023... Perché nel tuo caso il trasferimento è avvenuto con effetto immediato?
«Come accennato, l’accordo con Savio mi dava la libertà di svincolarmi in qualsiasi momento: questo facilita no­tevolmente la situazione. Ciò premesso, quest’estate ho fatto vedere di sa­per andar forte e la EF Education Easypost, come molte squadre World Tour, ha bisogno di portare a casa più piazzamenti possibile per il di­scorso del ranking triennale. Penso mi abbiano voluto subito per prendersi i punti che ritengono io sia in grado di portare in questo finale di stagione.»

A tal proposito, ha fatto parlare la decisione della Movistar di partecipare al Tour de Langkawi in Malesia a metà ottobre: ci sarà pure la EF?
«So che ci stanno ragionando.»

Torniamo a te. Il tempo di salutare la Drone Hopper Androni con un paio di top ten in classiche “minori” nei Paesi Ba­schi, e debutti in EF portando a termine il Tour de l’Ain: siamo alla stretta at­tualità, quali sensazioni attraversano la tua mente?
«Di sicuro non cambierei nulla di quan­to accaduto in passato: ci sono stati momenti in cui mi hanno aiutato gli affetti, i miei amici e, da un anno a questa parte, la mia fidanzata Martina. Ciò che è capitato, a tratti delle vere e proprie badilate, mi ha permesso di crescere tanto: dalle sconfitte si impara a vincere. Adesso ho intrapreso un’esperienza in un team che ha un progetto molto serio, che non è lì giusto per trasportare lo sponsor nel mon­do, e che punta su di me: ho un contratto di due anni e mez­zo e sono sereno per questo, ma ciò chiaramente non vuol dire starsene tranquilli e aspettare. Ogni corsa è l’occasione per farmi vedere e dimostrare ciò che sono.»

Sei stato chiamato subito a pedalare su palcoscenici importanti.
«Domenica 28 agosto ho fatto il mio esordio  nel WorldTour disputando la Bretagne Classic Ouest-France a Plouay: sono stato in fuga nel finale e ho fatto la volata con le forze residue, chiudendo decimo. Poi in America ho corso il Tour of Mary­land e le corse canadesi - Quebec e Mon­treal - di WorldTour. Otra l'Italia: ieri la Coppa Ago­sto­ni, il 1° ottobre il Giro dell’Emilia, il 3 la Coppa Bernocchi, il 4 la Tre Valli Va­re­sine e infine l’8 ottobre Il Lombardia».

La tua storia nel mondo del pedale parla di un ta­len­tuoso cronoman ma anche di una bella speranza per le corse a tappe, tanto che Vaugh­ters ti ha definito il miglior talento italiano: a tuo parere, che tipo di corridore sei?
«Il mio sogno è diventare un corridore da corse a tappe. Mi difendo in salita, vado forte a crono e ho un discreto spunto veloce. Con Pino Toni ho fatto un paio di “dietro moto” recentemente e ne abbiamo parlato: una chiave è la­vo­rare tanto sul recupero, per riuscire a fare nell’ultima ora di una gara di tre settimane ciò che riesci a fare nella pri­ma ora del giorno inaugurale. A tale scopo è fondamentale acquisire la continuità che non ho avuto nei due anni finora trascorsi da professionista. In questo momento sto ingranando e le corse da un giorno mi permettono di mettermi più in luce: nella prima tappa dell’Ain sono arrivato nono stando con Alaphilippe sull’ultima salita, poi pago inevitabilmente qualcosa a livello di resistenza. In futuro, sacrificando leggermente la potenza, potrò ottenere bei risultati nelle corse a tappe».

Chi è il tuo corridore del passato preferito?
«Gianni Bugno, che oltretutto conosco anche personalmente. Non solo in quanto rappresentante dei corridori, ma poiché quando ero piccolo al Velo Sport Abbiategrasso era spesso lì con noi».

Quello di oggi che prendi a modello?
«Amo valorizzare gli italiani, quindi dico Vincenzo Nibali: un punto di riferimento».

Infine, hai una passione particolare al di fuori del ciclismo?
«Mi piace andare in moto e mi affascina l’automobilismo. Coltivarli realmente come hobby è difficile: per gran par­te del tempo hai solo voglia di riposarti quando non pedali, inoltre vanno ridotti al minimo i rischi fisici».

Passioni calcistiche, invece?
«Fino al primo anno Esordiente giocavo a calcio oltre che andare in bici: so­no entrato nel vivaio dell’Inter, ma poi ho smesso e ho fatto solo ciclismo. Questione di dna familiare... e di tifo per il Milan! Anche se in realtà lo se­guo poco».

Preferisci guardare MotoGp e Formula 1 magari?
Su questa ultima domanda Piccolo sorride e gira la videocamera verso la tv, dove sta seguendo con la coda dell’occhio le qualifiche del Gran Pre­mio F1 di Spa-Francorchamps. Gara che non ha visto, perché a Plouay l’indomani il ventunenne magentino è arrivato a giocarsi la volata (vinta da Van Aert) e si è piazzato decimo. Tanto per ribadire.

da tuttoBICI di settembre

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