Torniamo a parlare della storia di Lisa Morzenti per riflettere sulla salute del ciclismo femminile. Giovanni Fidanza, professionista dal 1989 al 1997, guida la Eurotarget Bianchi Vittoria per cui la 21enne bergamasca ha militato fino al giorno in cui ha deciso di appendere la bici al chiodo.
«Sono rimasto spiazzato dalla sua scelta, è un vero peccato. Rispetto ma non condivido la sua decisione perché sono sicuro sia sbagliata e sono quasi certo nei prossimi anni si pentirà di averla presa. Per costruire una carriera ci vogliono anni, bisogna essere esigenti con se stessi ma concedersi anche il giusto tempo. Purtroppo ne ho viste tante come Lisa…» esordisce il tecnico bergamasco che dal 2007 è attivo nel mondo rosa. Dopo aver lavorato come direttore sportivo nel mondo maschile, ha allestito un team femminile dedicato a Esordienti e Allieve per seguire personalmente le figlie Arianna e Martina, con il passare delle stagioni allargato alla categoria Juniores, e da due anni dirige la squadra Elite UCI neroceleste.
«Con Lisa ho un buon rapporto. Era con noi da junior quando ha vinto l’europeo e ha conquistato la medaglia d’argento al mondiale, poi è passata in Astana quando nella formazione kazaka c’ero anche io, l’anno scorso non ero sicuro di riuscire ad allestire la squadra quindi aveva trovato spazio in un’altra realtà e in questa stagione era ritornata con noi, bella motivata. Sono dispiaciuto perché ha disputato un buon anno, è tornata alla vittoria (a Parabiago, a fine giugno, ndr) e ha ottenuto piazzamenti incoraggianti, era sulla strada giusta per crescere come si deve - continua Fidanza, che si avverte è sinceramente dispiaciuto. - Certe atlete vogliono tutto subito, invece devono darsi tempo. Io lo dico sempre a tutte e capisco che per una abituata a vincere le aspettative siano alte, ma la fretta è cattiva consigliera. Bisogna lavorare bene, avere sempre testa, convinzione e voglia. Il salto da Junior a Elite è importante, non c’è un passaggio intermedio come negli uomini, è normale a soli 20 anni non essere subito tra le prime. Per intenderci, sul podio del Giro Rosa di quest’anno sono salite atlete di 35, 33 e 30 anni. Io feci 5 anni tra i dilettanti prima di passare professionista, se avessi mollato dopo 2 non avrei vinto una tappa al Giro d’Italia e al Tour de France, non avrei vinto nulla. E poi il livello nel femminile oggi è molto alto, bisogna avere pazienza. Purtroppo non tutti lo capiscono».
Lisa ha evidenziato un problema economico: di ciclismo femminile, se non si entra in un corpo militare, non si vive. «In Italia le squadre fanno fatica, è indubbio. Si soffre nel maschile come nel femminile - ammette Giovanni. - Nel nostro paese abbiamo una squadra e mezzo di un certo livello, le altre sono piuttosto piccole ma permettono di fare attività alle ragazze, crescono un bel numero di atlete, le cui potenzialità sono evidenti, lo dimostrano i risultati che ottengono con la Nazionale. Nei primi anni ragazze di talento come Lisa devono investire su stesse. Ne ho parlato spesso sia con Alessandra Cappellotto (vicepresidente ACCPI e responsabile del settore femminile per il CPA, ndr) che con i rappresentanti della FCI: sicuramente i rimborsi spese che le cicliste ricevono, in base alle possibilità delle squadre, vanno aumentati ma bisogna farlo un po’ per volta. I corpi militari sono un bel aiuto per tante atlete, le logiche di selezione però non sono sempre chiare. Accedervi dovrebbe essere più meritocratico, se vinci titoli europei e mondiali dovrebbe essere quasi automatico essere tra le prescelte».
Il movimento è cresciuto, ma non riesce a garantire uno stipendio minimo alle atlete. La riforma del World Tour cosa comporterà? «L’anno prossimo cambierà poco perché ci saranno solo 6-7 squadre che avranno la licenza WT, ma al via delle corse ce ne dovranno essere 24-25. L’UCI ha imposto delle regole, ma dovremo vedere in quanti riusciranno a rispettarle. Passare da un team come il mio attuale a uno World Tour richiederebbe un investimento 4 volte superiore al budget che ho avuto per il 2019. Detto questo i costi, a mio avviso, sono abbordabili per l’attività e visibilità mondiale che potrebbe offrire una squadra di atlete professionali e di bella presenza, che possono rappresentare un ottimo veicolo di immagine per le aziende che le sostengono. Basterebbe un marchietto di quelli sulle maglie dei colleghi uomini per formare una squadra femminile di livello. Purtroppo però i grandi brand italiani al momento non ne vogliono sapere del ciclismo e non colgono la grande opportunità offerta da questa vetrina. In Italia abbiamo corridori, tecnici, massaggiatori, meccanici di prim’ordine, ma ci mancano i soldi. La nostra tradizione è apprezzata, ma a livello di investimenti non riusciamo a tenere il passo di altri paesi. Nel ’94, quando correvo io, avevamo 8 squadre partecipanti al Tour, ora non ne abbiamo mezza. Non è una questione di genere, ma di investimenti che, è inutile girarci attorno, oggi non ci sono. Al vertice magari il problema ancora non si nota, ma guardando la base è evidente. A pagarne le conseguenze maggiori sono i giovani».