A vederlo sembra che non abbia messo su un chilo, ancora magro e asciutto come quando correva, due anni fa, per la Trek, ma a differenza delle ultime stagioni da pro di fascia alta, oggi Fränk Schleck sembra più sicuro, più moderato, persino zen.
Chiusa la carriera agonistica, si è affacciato al mondo amatoriale come testimonial Mavic, e per l’azienda giallo-francese, si è schierato al via della Haute Route, il nuovo format di competizioni “cyclosportive” che prevedono gare a tappe di tre o sette giorni.
Incontriamo il lussemburghese nella biblioteca di Bèdoin, il villaggio ai piedi del Ventoux, il monte calvo che sarà oggetto di tre giorni di assalti, e subito ci appare disponibile e affidabile.
«Sì, il mondo degli amatori, in fondo, mi piace. Lo trovo divertente e soprattutto apprezzo la passione che si respira – commenta Frank di fronte a un piccolo plotone di giornalisti inglesi, francesi e un italiano – anche se devo dire, spesso vedo persone che rischiano di superare i propri limiti, e questo mi lascia perplesso».
È un attento osservato il signor Schleck, conosce molto bene le dinamiche del ciclismo sia di quello elite che la declinazione in chiave amatoriale.
«Per me è stata una grande transizione quella che ho vissuto passando al mondo amatoriale, e posso stare in mezzo alla gente: posso mettere a disposizione un po’ della mia esperienza, e soprattutto trovo molto avvincente avviare una collaborazione con una azienda per lo sviluppo di prodotti».
E’ un Frank Schleck a tutto tondo che anche nel linguaggio del corpo mostra sicurezza e tranquillità: «Si perché vedi, la vita del professionista è sempre sotto pressione: la squadra, i media, il pubblico e persino la famiglia. Sei sempre in tensione…. » e in questa digressione analitica della disciplina a due ruote c’è spazio anche per un pizzico di filosofia.
«Alla fine il ciclismo è stato per me una scuola di vita, perché mi ha insegnato molto, e lo vedo bene per bambini e ragazzi che hanno sempre con il GameBoy in mano…» si ferma e scoppia a ridere «…scusate, il GameBoy era cosa dei miei tempi, oggi hanno lo smartphone!». Cambia il videogioco ma il principio non cambia.
«Esatto, togliere una distrazione in cambio di un valore: nel ciclismo non hai opzioni, sai che devi misurarti con sacrifico e sofferenza» e forse sono queste caratteristiche che rendono il ciclista un asceta dello sport, un monaco benedettino del pedale, anacoreta della fatica.
«Sembrerà strano, ma il ciclismo è un po’ come il nuoto, perché ha molto in comune, soprattutto la determinazione: senza di quella non ti metti a nuotare per ore e ore con piastrelle blu e una striscia nera costantemente sotto gli occhi». Il paragone sembra un po’ forzato, ma per chi ha dovuto pedalare 30/35.000 chilometri l’anno, forse lo è un po’ meno.
Chilometraggio unito al talento cromosomico che la dinastia Schleck gli ha dato (il padre Johny ha corso a cavallo degli anni 60/70 e il fratello minore Andy ha vinto il Tour de France nel 2010) tanto da aver chiuso la carriera con qualche perla, tra cui una Amstel Gold Race e un paio di tappe alla Grande Boucle (compresa l’Alpe d’Huez): «Non ho vinto molto, e tra quelle gare che ho fatto mie non c’è una vittoria più bella di altre, ma le ricordo tutte perché ognuna è stata particolare».
Dal collega inglese al mio fianco arriva la domanda che fa sorridere Frank: «Se mi manca l’ambiente delle gare? Sì assolutamente sì» gli si illumina il volto. «Mi manca tutto, l’atmosfera, il clima che si respirava, ma ciò che amavo più di tutto erano i ritiri con il team: perché è negli stage che si forma lo spirito di squadra. La condivisione è un grande aspetto che mi manca». Il tema dei ritiri col team sembra essere quello che ispira di più il già loquace Frank: «Amavo andar via con la squadra anche perché non c’erano bambini che piangevano o da accudire, nessun piatto sporco da lavare… e quando sei fuori in bici puoi pisciare liberamente dove vuoi senza farti problemi». La risata è contagiosa che si affievolisce quando prosegue con «…e poi l’incubo di quando torni a casa, con i bambini che li senti piangere e litigare già da quando parcheggi l’auto in cortile» e il collega francese sottolinea con un «questo succede anche a noi». La vita casalinga sembra essere uguale per tutti, anche per un campione del ciclismo: «Esatto, e poi sono gli stessi bambini a cui devi dedicare le attenzioni di una o due settimane di assenza: devi giocare, e loro ti raccontano cosa hanno fatto. Insomma, un altro lavoro».
Il tempo stringe e Frank è chiamato dagli organizzatori della Haute Route a fare da testimonial al briefing pregara, ma sulle scale riusciamo a strappargli ancora qualche battuta, soprattutto sul suo trascorso italiano: «Dell’Italia conservo un ricordo… così così. Oggi di disputa il Lombardia, ed era una delle mie gare preferite». Pochi ricordano che un giovane Frank Schleck corse per un team italiano quando era ancora under 23: «Mmmmh…. all’inizio non è stato facile: ho vissuto per due stagioni a Bassano del Grappa, ed ero in un appartamento con cinque ucraini. No, non è stato facile. Ma anche quella è stata una esperienza che poi è servita» per esempio per imparare l’italiano, che parla discretamente.
Certo, vedere un campione come lui chiudere le tappe della Haute Route beccandosi un bel pacchetto di minuti dagli amatori potrebbe far storcere il naso, ma questa è la dura legge del ciclismo: quando esci dal “gruppo” ti aspetta il “gruppetto”, e non conta più chi sei stato, ma solo chi sei e che lavoro fai. «E quanti bambini hai a casa che ti aspettano».
Carlo Brena